Giunsero a un podere chiamato Getsèmani ed egli disse ai suoi discepoli: “Sedetevi qui, mentre io prego”. Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia. Disse loro: “La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate”. Poi, andato un po’ innanzi, cadde a terra e pregava che, se fosse possibile, passasse via da lui quell’ora. E diceva: “Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu”.

Forse il problema che mette di più in crisi il credente è quello della sofferenza. Perché c’è la sofferenza nel mondo? Perché Dio non la può evitare? Ancora di più quando siamo coinvolti in prima persona e arriviamo a pensare: Perché Signore devo soffrire? Qual è il senso? Una grande tristezza ci assale. La chiesa ci insegna che non esiste una risposta al perché della sofferenza e al problema del male (“Nessuna risposta potrà bastare”, Catechismo 309) e la Scrittura stessa non ci offre spiegazioni chiare.
Ci è offerta però la possibilità di illuminare dal di dentro l’esperienza del dolore.
Gesù, avendo preso con sé non alcune, ma proprio tutte le sofferenze del mondo, affinché l’umanità fosse redenta, ci ricorda che il dolore e il male, anche se difficili da sopportare, non hanno l’ultima parola: Egli ci ha promesso la salvezza. Nella sofferenza viviamo la notte della nostra anima, ma avvicinandoci a Cristo possiamo anche trarre forza per uscire dalla notte e trovare una nuova alba: “Attraverso i secoli e le generazioni è stato costatato che nella sofferenza si nasconde una particolare forza che avvicina interiormente l’uomo a Cristo, una particolare grazia. Ad essa debbono la loro profonda conversione molti Santi, come ad esempio San Francesco d’Assisi, Sant’Ignazio di Loyola, ecc. Frutto di una tale conversione non è solo il fatto che l’uomo scopre il senso salvifico della sofferenza, ma soprattutto che nella sofferenza diventa un uomo completamente nuovo. Egli trova quasi una nuova misura di tutta la propria vita e della propria vocazione.”
(Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica Salvifici Doloris, 26).

Anche Sant’Eugenio ha vissuto la sua notte, particolarmente in un periodo in cui ha subito la perdita di alcuni figli spirituali, su cui riponeva grandi aspettative per il futuro della congregazione da lui fondata.
“Quando finiranno le mie angosce? Da molti mesi non c’è giorno che non sia irrigato d’amarezza. Il passato, il presente, l’avvenire, pesano ugualmente sul mio cuore. Non concepisco come possa ancora esistere. Ah, se il buon Dio avesse voluto farmi morire, quanti dispiaceri mi sarebbero stati risparmiati! Ma sia fatta la sua santa volontà. Lo dico con un’adesione totale, malgrado la ribellione di una natura offesa in tutti gli affetti legittimi.”
(E.O. I, 7, p. 194)
Le prime parole di Sant’Eugenio in questa parte dei suoi scritti riecheggiano un po’ quelle di Giobbe: “Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: <<È stato concepito un maschio!>>” (Gb 3, 3).
Sant’Eugenio esce da questa notte nel momento in cui scopre che la notte di Cristo è divenuta la sua. E’ passato, come Gesù, da un momento in cui esclama “La mia anima è triste fino alla morte” al momento in cui liberamente può esprimere “Ma sia fatta la Sua santa volontà” e anche “Tu sei, mio Dio, la mia sola speranza e so per esperienza che non mancherai mai”(E.O. I, 15, p. 243).

Sono stata adottata quando avevo poco più di due anni, i miei genitori sono venuti a prendermi fino in Colombia, e questo per me è sempre stato motivo di orgoglio: fino ai 20 anni l’adozione non ha mai inciso negativamente su di me. Dopo i 20 anni, però, ho iniziato a vivere l’adozione come abbandono. Non c’era più niente di bello o positivo, solo l’abbandono. Mi faceva male pensare che la mia “madre” naturale non mi avesse voluta, mi faceva ancora più male sapere che gli altri due fratelli erano rimasti con lei e non erano stati dati in adozione. Perché sono nata se non sono stata voluta? Dio, perché vuoi che io
senta questo vuoto ora, dopo anni? Perché loro e non me? Nel presente tutto questo si traduceva in angoscia di perdere gli altri. Vivevo ogni cosa con ansia per timore di deludere tutti, soprattutto i miei genitori: avevo paura di perderli ed essere abbandonata, Di nuovo. In questo stesso periodo arriva la notizia che il mio padre spirituale sarebbe stato trasferito in un’altra città. Ecco Dio, è successo di nuovo, altro abbandono. Perché vuoi che io soffra così? Perché dai e poi togli? Perché devo vivere se devo soffrire? Andavo agli incontri ed era tutto rose e fiori. Poi, da sola in macchina, il vuoto, il pianto: Dio, dove sei? “Si dimentica forse una donna del suo bambino, […] Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai.” (Isaia 49,15). Non è vero dicevo, mi sentivo presa in giro, anche Dio si era dimenticato di me, mi aveva abbandonata. Avevo tutto: famiglia, amici, una persona che mi amava alla follia. Ma io non trovavo più il senso della vita, mi sentivo un rifiuto e come tale volevo solo sparire. Dio però non mi faceva sparire, nonostante più volte l’avessi chiesto in lacrime. Poi un Giovedì Santo, durante
l’adorazione, guardo l’Eucarestia e Gli chiedo: “Dammi solo un motivo per cui io debba continuare a vivere”. Il giorno dopo, mia Madre mi guarda dicendo: “Tu sei stata la mia salvezza, se non ho mollato è stato per te e tuo fratello”. Lì il senso della mia esistenza: l’amore di una madre e un padre che hanno aspettato a lungo, sofferto, pregato, attraversato il mondo per Amore.
Cecilia

Mi sono trovata a condividere l’esperienza di sofferenza di una mia cugina per la malattia del padre. In questo percorso abbiamo messo in comune ansie e paure, momenti di speranza e momenti di dolore. Eravamo insieme e insieme offrivamo al Signore le nostre suppliche, le nostre preghiere, le nostre richieste di aiuto, certe che Lui c’è quando due o più sono riuniti nel suo nome. “Venite a me voi tutti che siete affaticati e stanchi ed io vi darò ristoro”. Sapevamo che diversamente non poteva essere, “il Signore ha voluto così”, ci confidavamo a vicenda. In comunione di preghiera ci siamo affidati al Gesù dell’amore e della compassione. Ci siamo fidati di Lui quando cercavamo luce, forza e senso nella sua volontà. Quando suo papà ha lasciato la vita, la morte non ci è sembrata un evento del tutto privo di senso. Senza sminuire il profondo dolore per la perdita, abbiamo vissuto con gioia la sua ultima eucarestia nella Pasqua di nostro Signore. Qualche tempo dopo mi manda un messaggio “Tutto questo periodo mi è servito tantissimo per l’anima interiore e per la prima volta la serenità me l’ha data quella preghiera in più, quel rosario in più. Si è aperto quel canale di empatia che mi permette di vedere i tanti fratelli che soffrono e questo è un miracolo”. Accanto a questo mistero di sofferenza, si è svolto anche un mistero di amore.
Sara

T’ho trovato
[…] Ti cerco e spesso ti trovo, Signore.
Ma dove sempre ti trovo è nel dolore.
Un dolore un qualsiasi dolore
è come il suono della campanella
che chiama la sposa di Dio alla preghiera.
Quando l’ombra della croce appare,
l’anima si raccoglie
nel tabernacolo del suo intimo
e scordando il tintinnio della campana
ti «vede» e ti parla.
Sei Tu che mi vieni a visitare.
Sono io che ti rispondo:
«Eccomi Signore, te voglio, te ho voluto».
E in quest’incontro l’anima non sente il dolore,
ma è come inebriata del tuo amore:
soffusa di te, impregnata di te: io in te, tu in me,
affinché siamo uno. […]
Chiara Lubich

Trovi che l’esperienza del dolore indebolisca o fortifichi la fede in Gesù?
L’accettazione della volontà di Dio è per te motivo di “rassegnazione” o di “fiducia in Lui”?