A due anni dalla morte un ricordo di Nelson Mandela, testimone, statista e politico. La sua comprensione del rapporto tra forze antagoniste

di Alfonso M. Bruno, Zenit

Alla morte di Nelson Mandela, il 5 dicembre 2013, tutti i commenti e gli editoriali si sono soffermati su tre aspetti della sua personalità.  L’ex presidente è stato in primo luogo un martire, inteso nel senso originario della parola, e cioè un testimone. Questa è sicuramente un’eredità positiva, perché va dato atto a Mandela di avere proclamato e cercato tenacemente di attuare l’idea dell’eguaglianza tra gli esseri umani, quando tutto il mondo la affermava, ma si preferiva mettere tra parentesi per quieto vivere – essendo il Sudafrica il Paese dell’oro, dei diamanti e di tante altre risorse del sottosuolo – il fatto che un principio ormai così scontato vi veniva addirittura negato  in linea di principio. E’ giusto dunque riconoscere che Mandela ha pagato un prezzo enorme perché la teoria divenisse realtà.

In secondo luogo, si ricorda l’ex presidente come statista, per avere guidato una transizione democratica, non diretta a traghettare i suoi concittadini, come stava avvenendo in tante altre parti del mondo, da una dittatura ad uno Stato di Diritto, ma volta a cancellare un’ anacronistica supremazia razziale che sembrava impossibile da abbattere con mezzi politici e negoziali. I Boeri, l’etnia bianca dominante ma non collegata con un potere coloniale, distaccati ormai da secoli dalla madre patria europea, forti di un’interpretazione di origine calvinista della Bibbia per cui la ricchezza ed il potere costituivano un dono di Dio attribuito nell’immanenza storica, il meritato riconoscimento per la loro giusta fede, si consideravano titolari di una funzione messianica, come l’antico Israele.Era quasi impossibile rinunziare ad una supposta missione che si fondeva con la loro identità nazionale: quella  stessa missione che aveva motivato la resistenza contro gli Inglesi ai primi del Novecento. Mandela, nella transizione sudafricana, agì soprattutto come mediatore, forte della propria autorità morale, e di un Paese inventato dai bianchi in funzione della loro supremazia seppe fare un Paese arcobaleno, la cui composizione etnica particolarmente variegata finì per riflettersi nel nuovo assetto costituzionale. Non vi è dunque dubbio sulla sua funzione di statista.

Egli fu tuttavia anche un abile politico, che ad una minoranza spaventata seppe offrire non soltanto la mancanza di ogni atteggiamento di rivalsa da parte dei neri, ma anche una partecipazione adeguata nella nuova ripartizione del potere: se la politica – in virtù del principio di maggioranza – diveniva prerogativa della sua gente, ai Boeri sarebbe rimasto il potere economico, grazie al controllo della ricchezza mineraria.

Il Mandela martire, statista e politico non devono farci però dimenticare che egli rimase sempre un rivoluzionario. L’accettazione del pluralismo politico è dunque da giudicare alla stregua di una sorta di contraddizione tra la teoria e la prassi, in un personaggio rimasto dichiaratamente ed ostinatamente fedele alla sua formazione giovanile marxista? Non necessariamente, perché Mandela mantenne del marxismo, e praticò in modo impareggiabile, la capacità di calcolare i rapporti di forza. Ed il rapporto di forza relativo allo specifico sudafricano era da inquadrare in una visione prima continentale, e poi mondiale. L’anomalia razzista del suo Paese si manteneva in quanto i Boeri sapevano vendere bene all’Occidente, ma soprattutto all’America (obiettivo, questo, sempre più difficile quanto più aumentava negli Stati Uniti l’influenza della comunità di origine africana) la loro opposizione al comunismo. E proprio la caduta del comunismo venne sfruttata da Mandela, grande sportivo e buon conoscitore delle tecniche del corpo, come la sua grande occasione, in quanto la vittoria dell’Occidente poteva costituire quella forza avversa che bastava canalizzare per ottenere la vittoria: i Boeri non potevano ormai più presentarsi come i campioni dell’anticomunismo nel Continente Nero. Si stava però anche determinando una evoluzione nei rapporti di forze mondiali, con il declino dell’Occidente e con l’emergere delle potenze extraeuropee: questo rendeva obsoleto ogni atteggiamento oppressivo verso i bianchi; era infatti inutile per i neri trasformarsi da perseguitati in persecutori quando la parte avversa era posta di fronte ad un declino inarrestabile del suo vecchio potere. Bastava, secondo Mandela, lasciar fare alla storia.

Il resto è cronaca degli ultimi anni, con il capitale cinese che sottomette inesorabilmente l’Africa, puntando proprio sul controllo delle risorse minerarie, mentre l’Occidente batte dovunque in ritirata.

Amato dalla sua gente, Mandela è stato anche rispettato dagli Europei e dagli Americani per la sua magnanimità: senza però nulla togliere alla sua indubbia grandezza d’animo, si tratta piuttosto della visione strategica di chi ha saputo capire la storia; il presidente non ha mutato il rapporto di forze, ha però compreso e sfruttato le possibilità aperte all’azione politica dal suo cambiamento.

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Nelson Mandela e l’arcivescovo Denis Hurley OMI 

La morte di Nelson Mandela, il 5 dicembre 2013, ci ha ricordato che ci sono voluti tre grandi leader per abolire l’apartheid in Sudafrica: Mandela, Hurley e l’arcivescovo anglicano Desmond Tutu. Ricordiamo quanto Paddy Kearney scrisse nel 2009, nella biografia di mons. Hurley: Guardiano della Luce, sulla collaborazione tra Hurley e Mandela. Quando Hurley fu trascinato davanti a un tribunale, nel febbraio 1985, e minacciato con il carcere, perché aveva pubblicato “fatti non rispondenti al vero”, riferendosi all’azione della polizia, Mandela scrisse dalla prigione: “Mons. Hurley è spesso nei miei pensieri, soprattutto ora. Voglio che lo sappia”.Quando, nel 1994, Mandela iniziò il mandato di primo presidente del Sud Africa, eletto democraticamente, Hurley era lì, ospite speciale. Kearney ha scritto: “Lo considerava il secondo grande momento della sua vita, dopo il Vaticano II. In una lettera al suo amico Petalo O’Hara, ha descritto questa circostanza: “L’inaugurazione è andata meravigliosamente bene, ognuno ha giocato il proprio ruolo alla perfezione…La folla si è sciolta in una febbre gioiosa. L’atto finale è stato salutato da ventun colpi di cannone, e dal volo di aerei con sei aeromobili, che lasciavano dietro a sé scie con i colori della bandiera del Sud Africa. La folla era sbalordita. “La nostra forza aerea” gridavano i cittadini africani… Alle 15 ci siamo diretti verso l’aeroporto, felici per aver partecipato a questo evento, forse il più grande nella storia del Sudafrica”. Quando p. Jude Pieterse incontrò mons. Hurley dopo l’inaugurazione, notò “un entusiasmo che non aveva mai conosciuto in lui prima: straripante! In tempi normali, si controllava, ma quel giorno, esprimeva una gioia straordinaria”. Nel 1999, il presidente Mandela conferì a Hurley l’Ordine di Merito e Servizio (I Classe). Quando mons. Hurley morì, il 13 febbraio 2005, suor Marie-Henry Keane, che da giovane suora domenicana aveva seguito le sue lezioni sul Vaticano II, l’ha definito “il Nelson Mandela della chiesa”. Ora insieme si rallegrano per il crescente sviluppo della giustizia, della verità e delle opportunità del Sud Africa.

Harry Winter OMI

Per il Sudafrica e per il mondo

“Quando ho appreso la morte di Mandela, la mia prima reazione è stata di gratitudine. La gratitudine per tutto quello che Nelson Mandela ha fatto per il Sudafrica, e anche per il mondo”. Furono le parole del card. Wilfrid F. Napier, arcivescovo di Durban, in un’intervista al quotidiano francese La Croix all’indomani della morte di Nelson Mandela. “Quest’uomo era un modello. Incarnava l’umiltà e aveva grande rispetto di tutti coloro che lo circondavano” ebbe modo di dire il cardinale. Ai funerali del leader sudafricano che si tennero10 dicembre, parteciparono capi di Stato e di governo provenienti da tutto il mondo. La cerimonia funebre fu introdotta da una momento di preghiera interreligiosa.  I vescovi sudafricani invitarono i parroci a suonare le campane delle loro chiese a mezzogiorno del giorno seguente, 11 dicembre, per onorare la memoria del leader della lotta antiapartheid e primo presidente del Sudafrica democratico.

Un uomo realista e ottimista

“L’educazione è il più grande motore dello sviluppo personale. E’ grazie all’educazione che la figlia di un contadino può diventare medico, il figlio di un minatore il capo miniera o un bambino nato da una famiglia povera il presidente di una grande nazione. Non ciò che ci viene dato, ma la capacità di valorizzare al meglio ciò che abbiamo è ciò che distingue una persona dall’altra”.

“Ho imparato che il coraggio non è l’assenza di paura, ma il trionfo su di essa. L’uomo coraggioso non è colui che non si sente impaurito, ma colui che vince la paura”.

“Sono fondamentalmente un ottimista e non so se ciò dipenda dalla mia natura o dalla mia educazione. L’ottimismo è anche tenere la testa alta e continuare a camminare. In molti momenti cupi la mia fede nell’umanità è stata messa duramente alla prova, ma non volevo e non potevo cedere alla disperazione, perché quella strada mi avrebbe portato alla sconfitta e alla morte”.

Nelson Mandela

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(Tratto da MISSIONI OMI 11/2015)

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