III domenica di Avvento – Anno C
Letture: Sof 3,14-18; Is 12; Fil 4,4-7; Lc 3,10-18
“Che dobbiamo fare?” è una di quelle domande che si possono leggere in modo ambivalente. È una domanda che spesso assume un tono di rassegnazione, in una situazione che ci sembra di non poter cambiare; sinonimo di “e che ci possiamo fare?”. Certo, in tante circostanze effettivamente il nostro potere di intervento è nullo, ma tante volte, dietro alla rassegnazione di fronte a qualcosa di ineluttabile, che non si può modificare, si nasconde anche una certa pigrizia di mettersi davvero d’impegno a cercare di cambiare le cose. Una domanda che troppe volte diventa il tentativo di spazzare l’area di gioco della nostra vita per salvarci in corner, per darci l’illusione che -se le cose vanno in un certo modo- in effetti noi non ci possiamo fare niente e che non è colpa nostra, anziché trovare il coraggio di giocare la palla a terra e tentare un disperato contropiede che, chissà, potrebbe anche trovare la via del gol e ribaltare il risultato.
Il Vangelo di oggi ci invita ad assumere fino in fondo questa domanda, a prenderla sul serio, e nel significato più positivo e propositivo che può avere. Mi sembra, del resto, che fosse questo lo spirito che animava le persone che si rivolsero quel giorno, sulla riva del Giordano, a Giovanni Battista. Persone che, di fronte alla bellezza di una vita nuova, di un accesso al Regno di Dio, animati dal desiderio sincero di raggiungere quella bellezza prospettata loro, si interrogavano seriamente su cosa “dovere e poter fare”. Una domanda che riecheggia altre volte nelle pagine del Vangelo, sempre di fronte a qualcosa di troppo bello, troppo grande, troppo genuino per essere scartato così facilmente. Pensiamo al giovane ricco, che chiede a Gesù: “maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?”; la stessa domanda fu poi rivolta a Gesù, in un’altra occasione, anche da un dottore della legge; venne poi il turno delle folle che, saziatesi del pane e del pesce che aveva moltiplicato, voleva sapere “che cosa doveva fare per compiere le opere di Dio”. E così in tante altre occasioni…
Quel giorno, sulla riva del Giordano, il Battista se la sentì ripetere a raffica da tutta una serie di personaggi che, probabilmente, erano sì rassegnati, ma anche tanto speranzosi in un cambiamento. “Che cosa dobbiamo fare, Giovanni?” Il Battista sembra avere una risposta specifica per ciascuno, secondo la propria categoria. Si rivolge dapprima alla gente comune, alla folla; e li invita a condividere, ad essere generosi, ad essere essenziali e solidali di fronte ai bisogni degli altri, ad accorgersi che c’era qualcuno, intorno a loro, che avevano bisogno di quella tunica in più che qualcun altro possedeva o di un pezzo di pane che a loro sarebbe avanzato.Ai pubblicani, gli odiati strozzini del tempo, non chiede nemmeno di cambiare mestiere; ma, a partire dalla loro attività, di ricercare una giustizia, una moderazione, una comprensione, un’attenzione del cuore. E così ai soldati, categoria che spesso si lasciava andare a soprusi e angherie in virtù della posizione di predominio e forza che avevano: non maltrattate nessuno, non usate il vostro potere per schiacciare chi dovreste invece proteggere, non vi fate forti di una posizione.In altri termini: Giovanni invitava a fare bene, fino in fondo, ciò che già normalmente avrebbero dovuto fare! Umanamente mi verrebbe da dire: “e ci voleva tanto a capirlo?”. Evidentemente sì. Se la domanda torna spesso, se l’uomo ha sempre bisogno di capire “che cosa deve fare”, la cosa non è così scontata.È una questione di “giustizia”. La giustizia, per definizione, è “la virtù per cui si dà a ciascuno il suo”; Giovanni la completa mostrando anche che “ciascuno deve dare il suo”, ossia ciò che gli tocca in base a ciò che è, ciò che deve dare in virtù dello stato in cui si vive. Che i soldati facciano i soldati, e lo facciano in modo “giusto”; i pubblicani, lo stesso; e così tutti gli altri. E magari farlo con amore.A pensarci bene, si tratta di una delle conversioni più difficili. Fare bene ciò che ci viene chiesto in base a ciò che siamo già!Probabilmente anche noi ci siamo domandati qualche volta, di fronte al messaggio del Vangelo: “e io? Io che devo fare”?
Eppure, “quanta roba” abbiamo su cui poterci confrontare e che ci darebbe le risposte! Abbiamo 2 Testamenti, un migliaio di leggi, precetti e prescrizioni, abbiamo i 10 comandamenti, abbiamo le beatitudini, il comandamento dell’amore reciproco… ma ancora non sappiamo “che cosa dobbiamo fare”!
Il problema è che si guarda sempre al di là, a qualcosa di esterno a noi, nella ricerca di qualcosa di strano, di bizzarro, magari anche di oneroso, o di puntuale, di specifico, un’azione che valga una volta per tutte, pur di non operare una conversione profonda che riguarda il nostro essere e il nostro agire quotidiano.
Ci sarà tra di noi qualcuno che è militare, poliziotto, carabiniere o che appartiene ad un’Arma: ebbene, come dice Giovanni Battista, fallo bene, onestamente, senza scappatoie che il tuo stato ti offrirebbe. Ci sarà qualcuno che lavora in un ufficio pubblico; ma ci saranno anche dottori, avvocati, imprenditori, casalinghe, studenti, papà e mamme, figli… fate bene ciò che siete! Se sei casalinga, fai bene le pulizie in casa, accudisci per bene la tua famiglia, cucina con passione, e fallo per amore, fino in fondo. Se sei studente, studia bene, con impegno; se sei spazzino, spazza bene le strade della tua città, come se fosse la missione a cui sei chiamato; se sei prete, fallo bene, senza compromessi…Tutto qua!
Credo sia questo il messaggio di gioia di questa domenica “gaudete”: fare bene, fino in fondo, e per amore… semplicemente ciò che si è!