Battesimo del Signore – Anno C
Letture: Is 40,1-5.9-11; Sal 103; Tt 2,11-14;3,4-7; Lc 3,15-16.21-22
Sono passati circa 30 anni dai fasti di quella famosa notte in cui un bambino di nome Joshua, che veniva da Nazareth, nacque. Una notte veramente speciale per un bambino veramente speciale; e chi se la dimentica più! Una coppia allo stremo delle forze che deve cercarsi un riparo d’emergenza, le doglie del parto che colsero i due impreparati, il rifugio e una sistemazione d’emergenza; poi la nascita, in condizioni non proprio igienicamente perfette. Gli angeli che cantavano il Gloria, la fila di pastori che accorrevano per vedere il prodigio, quella stella che brillava in alto e che sembrava quasi viva… e poi gli eventi tumultuosi delle settimane seguenti: i magi dall’Oriente, la profezia strana di un vecchio saggio, la tumultuosa fuga in Egitto, fino al rientro, probabilmente dopo un paio di anni di esilio, a Nazareth.
Poi il silenzio. Ben 30 anni che si interpongono tra quegli eventi e ciò che oggi ci racconta il Vangelo.
Nel frattempo, Dio è cresciuto. Quel bambino che si diceva essere il Messia, Figlio di Dio, e di cui si erano perse le tracce e il ricordo, è diventato un uomo. E che uomo! Bello, brillante, con un lavoro avviato, una buona famiglia alle spalle…
30 anni in cui ha dovuto imparare ad essere Dio. E, per arrivarci, ha dovuto percorrere quel cammino che anche S. Eugenio indicava ai suoi: “sforzarsi di diventare prima uomini ragionevoli, poi cristiani, e tendere poi alla santità”. Il Vangelo ci dice che Gesù cresceva in “età, sapienza e grazia”; anche Gesù, in qualche modo, ha dovuto percorrere questo cammino come “uomo, cristiano, santo”. Ha imparato crescendo e, crescendo, ha maturato in sé una vita che poi riproporrà al mondo; non è semplice ripetitore asettico e distaccato delle cose di Dio: quelle “cose” si sono formate con Lui, con la sua umanità, con il suo cammino di relazione con il Padre. Il Vangelo, quella buona notizia che annuncerà, è vita che ha saputo formare in sé, che è diventata carne della sua carne in Lui, prima di essere proposta al mondo. Ha imparato dalla vita, dall’amicizia, dallo studio, dal gioco, dal lavoro, dalla preghiera, ad essere ciò che è oggi. Per 30 lunghissimi anni! Evidentemente, bisogna imparare anche ad essere Dio, e a farlo bene!
E se Dio ha avuto bisogno di crescere, figuriamoci noi…Dovremmo sforzarci di più a saper trasformare il vissuto quotidiano fatto di scuola, studio, lavoro, amicizie, relazioni, impegno, formazione cristiana, preghiera ecc… in cammino che ci porta diventare persone mature a 360 gradi.
Poi, dopo 30 anni, colui che avevamo lasciato bambino riappare sulla scenda del mondo. Ma è, di fatto, uno sconosciuto. Chi si ricorda di quegli avvenimenti di 30 anni prima, e chi potrebbe ricollegare quegli eventi a quest’uomo? Di certo nessuno, ora, quando lo guarda, pensa minimamente che lui possa essere il Figlio di Dio.
Anzi, tutti guardano a Giovanni in tal senso, al punta che il Battista si deve come “difendere” da questa nomea; “ehi, non sono io il Cristo!”.
Tra l’altro Gesù, almeno per il momento, non aiuta per niente a far trasparire la sua origine divina: si mette in fila con i peccatori, come uno qualunque… come può la gente a capire che è Dio???
Il Padre deve intervenire direttamente, prendere letteralmente la parola e dire apertamente: “ecco, questo è mio Figlio!”. Ma non un figlio qualunque: “tu sei il mio figlio STRA-AMATO”. C’è Qualcuno che lo riconosce pubblicamente; ma questo “riconoscimento” non è dato tanto dalla “voce” del Padre, dalla sua parola… quanto dal Suo Amore! È l’amore del Padre che fa uscire Gesù dall’anonimato e lo riconosce come figlio.
Tra l’altro Gesù è in atteggiamento di preghiera; è come se aprisse un varco tra sé e il Cielo, e in questo varco il Padre si inserisce, ammettendo pubblicamente, davanti al mondo, l’amore per questo figlio. È maturato fino al punto di essere capace di sentire su di sé e di accogliere tutta la pregnanza dell’amore del Padre. Che, tra l’altro, quella frase la rivolge proprio a Lui, in prima persona: non lo fa tanto per tutta la folla che l’ascoltava, ma per QUEL figlio particolare: “TU sei il mio figlio amato”.
La cosa vale anche per noi. È l’amore del Padre che ci fa figli; nella relazione con Lui, troviamo la nostra identità. Non è questione giuridica, o di documenti, di anagrafe…
Siamo “fatti” persone e figli da questo amore.
L’amore di Dio è costitutivo. Ci rende persone degne di amore perché amate direttamente dal Padre. Dal momento del nostro concepimento, dal primo istante della nostra esistenza, questo amore ci “fa essere”; passando poi per il giorno del nostro battesimo, in cui siamo stati immersi e inzuppati non solo nell’acqua, ma nell’amore del Padre che dice anche a noi: “tu sei mio figlio; ma non un figlio qualunque: anche tu sei mio figlio STRA-AMATO”.
Quanto spesso, però, viviamo mettendo strati di nubi tra noi e questo amore; quanto spesso con il peccato, con le scelte sbagliate, ma ancor di più con una tristezza di vita, offuschiamo questa realtà non lasciandoci più raggiungere e toccare da questo amore che ci riconosce. Quanto spesso questa luce non ci raggiunge più, per cui sentiamo di non essere davvero figli.
Siamo chiamati ad aprire varchi, squarci, strappi in quelle nubi che si frappongono tra noi e il cielo, in modo che questo amore possa raggiungerci ancora, sostenerci in questa verità.
Essere e sentirsi veramente “figli amati” fa la differenza…