VI domenica di Pasqua – Anno C
Letture: At 15,1-2.22-29; Sal 66; Ap 21,10-14.22-23; Gv 14,23-29
Qualche giorno fa una persona non credente, con un po’ di vena polemica, mi chiedeva quale differenza ci fosse tra fede e superstizione. Per lui erano la stessa cosa. “In fondo”, diceva, “anche voi fate dei riti, fate delle azioni particolari, vi comportate in un certo modo, seguendo delle regole, per propiziarvi qualcosa o qualcuno; pregate perché le cose vi vadano bene”. Io ho provato a spiegare a questa persona le enormi differenze che ci sono tra fede e superstizione; dialogo che non riporto qui perché non è il caso. Ma quella domanda mi è rimasta dentro, e me la sono portata dietro nella riflessione personale.
Sono tante e profonde le differenze tra fede e superstizione. Partendo dal piano dell’obiezione che mi veniva rivolta, sul mero “fare” qualcosa per avere il favore di qualche forza soprannaturale, c’è una sostanziale differenza nel “fare le cose”. Ciò che nella superstizione è causa, nella fede è conseguenza; ossia, l’agire del superstizioso è ciò che mette in moto qualcosa all’inizio di un processo, l’agire del cristiano è invece alla fine di un cammino che si compie nell’amore.
Mi spiego meglio. Anche la persona superstiziosa in qualche modo crede in una qualche “forza”, o entità soprannaturale che può cambiare il suo destino. Questa entità si identifica in genere nella “fortuna”. L’obiettivo è che le cose mi vadano bene; il mio sforzo dunque è orientato ad accaparrarmi il favore della fortuna, in modo che mi sorrida e mi faccia andare la vita come voglio io. Per cui, per ottenere il suo favore, devo stare lì a fare qualcosa spesso di strambo. Devo cercare un amuleto (che sia un quadrifoglio, un corno o ferro di cavallo poco importa), devo stare attento ad evitare azioni che potrebbero allontanare da me questo favore (occhio ai gatti neri; ma, soprattutto, attenzione a non rompere gli specchi!!!), e devo compiere azioni particolari se voglio allontanare da me il suo antagonista, la “sfortuna” (toccare ferro, fare le corna, “grattarsi” le parti basse e altre amenità del genere).
Qual è il problema (della superstizione)? È che SE io voglio avere delle cose, e SE voglio evitarne altre, DEVO fare o non fare certe cose. Tutto passa da lì. In una strettissima connessione tra causa ed effetto.
Ecco, la fede è proprio l’opposto. Il bello è che io non DEVO fare qualche cosa per suscitare l’amore di Dio nei miei confronti! Dio mi ama già, a prescindere, senza che io debba toccare qualcosa o fare gesti strani. Non ho bisogno di fare nulla, assolutamente nulla, perché Dio mi dia il suo amore. Dio mi ama, punto.
Quel che io faccio allora, viene come conseguenza alla consapevolezza di essere amato così, in maniera libera e gratuita… ma anche volontaria e testarda, da parte di Dio!
Io farò o non farò alcune cose, mi comporterò in un modo o in un altro quando sentirò che quest’amore così grande mi interpella, e sentirò in me il desiderio di corrispondere.
È una questione d’amore; ciò che manca nei confronti della fortuna e della sfortuna. Queste entità sono capricciose, instabili, pronte a girarmi le spalle. Non mi vogliono bene, non possono rivolgersi a me dandomi del “tu”, non mi diranno mai “ti amo”. Soprattutto, non mi hanno manifestato un amore così grande da morire per me. Tutto qui.
È questo il senso della Parola di oggi.
Che si apre con la problematica della prima lettura: che si fa verso i pagani venuti alla fede? Circoncisione sì o circoncisione no? Che cosa DEVONO fare i pagani per essere salvati?
La questione era grossa, perché si stava mettendo in discussione una pratica millenaria, alla base dell’identità di Israele. Ma una pratica ormai inutile, perché non serviva ad attirare l’amore di Dio. Per cui Paolo e Barnaba, che avevano ben capito la questione, per derimerla una volta per tutte, riuniscono gli altri apostoli e ne parlano. E tutti convengono sull’inutilità della cosa. Non è più qualcosa di “esterno” che ci attira l’amore di Dio, ma deve essere l’uomo che, dall’interno, si rende consapevole di questo amore e punta a rispondergli. Perché lo vuole, lo desidera lui.
Non è una questione di eseguire o no degli ordini o compiere delle norme; è una questione di amicizia, di affetto, di amore.
«Se uno mi ama, osserverà la mia parola (…) Chi non mi ama, non osserva le mie parole». Perché non ha interesse a farlo.
Però… però. Un particolare in fondo c’è, che va tenuto in conto. Dicevamo che è una questione d’amore. E allora ciò presuppone che noi ci innamoriamo. Se non ci innamoriamo, e in conseguenza di ciò siamo disposti a fare le cose che ci dice l’amato, non seguiremo le “sue parole”, faremo di testa nostra. Oppure, ed è altrettanto drammatico, le faremo, ma per paura o senso del dovere.
Per cui delle due l’una: o segui le parole del Signore perché lo ami, o sei semplicemente un superstizioso. Con le cose di Dio, ma comunque superstizioso. Sostituirai gli amuleti con crocifissi e santini, non perché ti aiutano a pregare, ma perché “portano bene”; pregherai perché credi che quella preghiera sia il dazio da pagare per ottenere ciò che vuoi; seguirai anche i comandamenti, magari nel minimo sindacale, stando attento ad evitare di fare certe cose, ma senza sviluppare la fantasia dell’amore; andrai sempre a messa, con la convinzione che Dio ti vorrà bene per questo, e non avrà nulla da ridire; ti comporterai da brava persona, con la pretesa che poi Dio ti debba ricambiare facendoti andare bene le cose. Superstizione, solo superstizione. Zero amore. Non abbiamo capito che Dio “non porta bene”, ma “ti vuole bene”.
Purtroppo questo è un pericolo presentissimo anche in noi cristiani.
In fondo, spesso, cerchiamo anche noi semplicemente un po’ di fortuna.
Solo che – non ce ne rendiamo conto – la chiamiamo Gesù Cristo.