P. Massimo Kratter nasce a Sappada (Belluno) il 24 ottobre del 1946. Frequenta il seminario minore ad Udine e poi il liceo a Firenze nella Scuola Apostolica dei Missionari Oblati di Maria Immacolata.
Nel 1965 fa il noviziato a Ripalimosani (CB) pronunziando i primi voti nel 1966. Fa i voti perpetui nel 1969 a San Giorgio Canavese (T0) e viene ordinato sacerdote il 29 giugno del 1972. È missionario in Laos fino al 1975 e dal 1976 in poi in Senegal.
Tornato per una vacanza in Italia, durante un’escursione sul monte Peralba, muore a 34 anni il 26 luglio del 1980.
Una settimana dopo, il 2 agosto 1980, le campane di 50 piccoli villaggi dispersi nella savana di Ngueniène (Senegal), chiamano a raccolta tutta la gente per dare la dolorosa notizia: “Padre Massimo ci ha lasciati”. Un catechista commenta: “Padre Massimo amava veramente tutti, perché in noi vedeva Gesù”.
Massimo Kratter, sappadino di nascita e di cultura, era uno che si impegnava fino in fondo. Tirarsi indietro non era da lui. Raggiunta una vetta, ne individuava un’altra e riprendeva, instancabile e solerte, il cammino.
LAOS
La sua prima partenza missionaria è per il Nord Laos. Lo vediamo, tra quelle montagne cosi diverse dalle sue, adattarsi al clima, imparare la lingua, fare amicizia, portare con la sua serenità la presenza di Cristo fra i più poveri. E scrive: “Ieri sono andato per la prima volta a vedere il villaggio in cui lavorerò. È a 15 km da Houei Say. Sono andato solo perché sapevo già il posto e conoscevo il catechista. Mettersi su questa strada in moto è sempre un’avventura: salite, discese, buche, ponti stretti, polvere indescrivibile che vi entra ovunque… Comunque sono arrivato.
All’ingresso del villaggio una decina di maiali neri, grandi e piccoli, sono stati messi in fuga dal sottoscritto, perché erano placidamente sdraiati sulla strada.
La prima cosa che ho fatto sono andato dritto in chiesa. Mi sono inginocchiato in fondo a questa chiesetta in legno e ho pensato a Lui, che stava li ad aspettarmi per affidarmi quel pezzetto di Chiesa viva ancora giovanissima.
Descriverti bene quegli attimi mi è difficile: posso dirti che in qualche frazione di secondo davanti alla mia mente si è proiettata la mia vita cosi come le immagini di un film sullo schermo. Mi sono rivisto bambino, quando ho sentito i primi palpiti di vocazione, in seminario, su su fino all’ordinazione, ho rivisto la nostra vallata, volti di parenti, amici, di tutti voi insomma che formate la Chiesa li, Chiesa viva nella quale sono nato e cresciuto e di cui ora sono testimone tra questi poveri montanari. Ho rivisto la partenza, l’anno di studio della lingua pieno di difficoltà… e mi sembrava che tutto fosse stato una preparazione a quel momento.Non mi sentivo solo, perché vi avevo presenti tutti, perché due piccole parti della Chiesa universale si incontravano in quel momento”.
E qualche anno dopo racconta: “L’improvvisa e drammatica conclusione della nostra esperienza laotiana determinatasi con l’espulsione di tutti i missionari OMI italiani aveva provocato in noi tutti un trauma di cui solo ora, a distanza di qualche anno, riusciamo a capire la gravità. La mia esperienza è stata la più breve di tutte. Dopo lo stage di lingua a Bangkok della durata di un anno, ho potuto svolgere un po’ di ministero nel distretto di Houei Say per un periodo di 20 mesi circa. Il periodo sufficiente quindi per incominciare a praticare la lingua ed iniziare a conoscere il mondo di quei popoli asiatici. Nell’animo però avevo l’idea, la convinzione, che mi sarei votato, completamente e per la vita, per il bene materiale e spirituale di quella gente che Dio affidava alle mie cure. Indubbiamente il dramma interiore vissuto da chi per 10, 15 o 18 anni si è fatto uno quotidianamente con la gente, accettando le gioie e i dolori, i lutti e le separazioni che hanno caratterizzato il cammino della chiesa laotiana, è stato molto più profondo del mio dramma e solo Dio può comprenderlo nella sua profondità. Penso che ciò che di più ha fatto soffrire sia stato: il pensiero di dover lasciare i cristiani nel più completo abbandono, come pecore erranti senza pastore e nella certezza che sarebbero stati prima o poi preda dei lupi rapaci vestiti da agnelli.
L’umiliante accusa che i nuovi padroni diffondevano come un ritornello: “i missionari sono spie della CIA, sono i nemici numero uno del popolo, tutto quello che fanno è per ingannare la gente; I’attività spirituale serve loro da paravento per coprire le loro losche manovre a favore degli imperialisti”. Noi eravamo invece li in nome di Gesù… Con la nostra vita volevamo testimoniare che il Regno di Dio è vicino e l’aiuto materiale era solo ispirato a quanto ha detto Gesù: “Qualunque cosa avrete fatto al più piccolo dei miei fratelli, l’avrete fatto a me“.
SENEGAL
La seconda partenza missionaria di P. Massimo. Paese arido, l’acqua di fiumi melmosi, una lingua diversa e difficile, costumi e abitudini lontane.
Scrive in una lettera: “Il 29 novembre 1976 nove Missionari OMI, tutti reduci dal Laos, sono sbarcati a Dakar: iniziavamo cosi una nuova esperienza missionaria in un
continente per noi nuovo, l’Africa. Spontaneamente, fin dai primi tempi, ci siamo trovati a paragonare la nuova vita con quella che fu nostra nel Laos: differenze di ambiente, clima, gente, mentalità, religione… La novità è data soprattutto dalla presenza della chiesa locale.
Al Laos la Congregazione aveva ricevuto un territorio “vergine” ed aveva il compito ben preciso di annunciare il vangelo e di favorire il più possibile lo sviluppo della chiesa locale. In Senegal è stata la chiesa locale, attraverso i suoi vescovi, che ci ha chiamati. La realtà che viviamo giorno per giorno è di essere al suo servizio, cioè ubbidire ai superiori locali, conformarci alle loro direttive e ai programmi pastorali, adottare le strutture e le opere diocesane, coltivare un rapporto fraterno e di collaborazione col clero locale e gli altri missionari presenti in diocesi. Un secondo aspetto riguarda la nostra vita interna, come gruppo di missionari OMI. Il periodo trascorso in Italia ci ha permesso di valutare lo stile di vita che avevamo al Laos e di sentire profondamente tutti un’esigenza di vita nuova da realizzare in una missione nuova.
Concretamente ci siamo detti: se Dio ci chiama a ripartire per una nuova missione, noi vogliamo partire come comunità e vogliamo che il nostro lavoro apostolico sia espressione di essa e non più di un solo individuo. Una comunità nella quale si respiri la presenza di Gesù, quello stesso Gesù che siamo chiamati ad annunziare”.
Ma più avanti scrive a un gruppo di amici del suo paese:”Cari amici del gruppo Wurberte, ho letto in questi giorni una frase che mi è piaciuta molto: “ognuno sente il bisogno di lasciare una traccia del suo passaggio tra gli uomini. Ognuno deve lasciare un’impronta, la sua impronta”. Il gruppetto dei quattro giovani vostri coetanei che hanno trascorso un periodo di due mesi nelle nostre missioni del Senegal, credo abbia vissuto questa frase in pieno. Hanno lasciato la loro impronta sulla costruzione, sulle pareti imbiancate, sui malati curati al dispensario, ma soprattutto la loro traccia è rimasta nell’intesa, nella vita d’insieme, nella disponibilità, nella voglia di rendersi utili e di fare il bene, espresse attraverso il loro atteggiamento di vita… Per sottolineare questa vita di unità che si è instaurata fra noi e voi, ho pensato di farvi pervenire un regalo alquanto singolare. È ben poca cosa, ma vuol essere un simbolo: si tratta di una corona musulmana che si chiama “Kurus”. Il Senegal è per il 90% musulmano e ogni buon musulmano sgrana la sua corona due volte al giorno ripetendo: Dio e‘ grande, Dio è misericordioso, Dio sia benedetto. L’Islam vuole provare al mondo che Dio esiste, il cristianesimo invece vuole provare con i fatti che, se Dio esiste, questo Dio è Amore. È un impegno, questo, della piccola comunità cristiana in cui viviamo”.
IL SENSO DELLA VITA
P. Massimo per i suoi compagni era uno sempre pronto all’ascolto, al servizio, primo a donarsi perché in montagna le vite sono legate e chi guida mantiene il passo a misura di
chi segue, deciso a “provare” agli altri l’Amore di Dio. Ma la morte arriva improvvisa e non chiede se sei pronto. Dice semplicemente “vieni!”. Il testo che conservava nel breviario accende una piccola luce su di lui:
“Se stai sulla montagna,
oppure nella valle,
la morte ti trova dovunque.
Non ti chiede: ”Hai tempo?”
Non ti chiede: “Hai voglia?”
Dice solo: “Vieni! Tu devi!”
Per questo, o pellegrino,
sii pronto, a ogni passo, in ogni
tempo, fai del bene e temi Dio”.
Così scriveva alla sorella Caterina in occasione della morte di un sacerdote amico: ”Vedi, la morte umanamente fa paura, ma Gesù che è morto e risorto ci dà la possibilità di guardarla con occhi nuovi. Anch’io sono rimasto scosso dalla morte di don Silvano. Chi l’avrebbe detto? Alla sua età? Ma io penso che non sia per caso che è successo tutto questo.
Dio ha i suoi piani su ognuno di noi. Don Silvano, cosi come è vissuto è morto, ha fatto della sua vita un dono a Dio e l’offerta di questo dono ha raggiunto il suo culmine.
La vita non acquista valore ed importanza dagli anni che ci sono dati da vivere, ma da come si vive! Io credo nella vita eterna e questo mi tranquillizza. Umanamente parlando mi sembra assurdo, perché non lo si può provare, ma io credo nelle parole di Gesù che ha osato dire: Io sono la risurrezione e la vita, chi crede in me, anche se morto vivrà…
La morte è come una porta che si apre e che fa entrare in un’altra stanza più bella, dove, insieme alla SS. Trinità, alla Madonna ed ai santi potremo ritrovarci”.
(di Piergiorgio Piras e Giuseppe Cellucci, Tratto da Missioni OMI 7/2005)