Scrivo questo breve pensiero nel giorno della festa di s. Tommaso apostolo mentre mi trovo a Gesso per la visita alla nostra comunità.
“Abbiamo visto il Signore” è ciò che dicono gli apostoli a Tommaso che non era presente quando Gesù risorto apparve loro. La situazione esterna degli apostoli era simile alla nostra durante il periodo del lock-down a causa del Covid-19, erano, cioè, chiusi in casa. Anche i sentimenti che provavano erano, almeno in parte, i nostri stessi sentimenti: un senso di frustrazione, di paura, di incertezza del futuro… In questa situazione appare il Signore che, entrando a porte chiuse, porta in dono la sua pace.
Ripensando ai mesi scorsi chiusi in casa, possiamo dire anche noi, come gli apostoli, “Abbiamo visto il Signore”? “Vedere” è un verbo centrale della nostra esperienza di fede. In greco ci sono almeno tre verbi diversi per specificare la qualità del nostro sguardo.
Il primo, blepein, è un verbo che si riferisce a ciò che gli occhi vedono. È la visione esterna, quella visione, nel complesso, che potremmo dire oggettiva, ma allo stesso tempo limitata. Immaginiamo. Arriva il primo figlio a casa, vede un bel piatto di spaghetti sul tavolo e, sfregandosi le mani, dice: finalmente si mangia!
Il secondo verbo, theorein, è quello che indica un vedere intelligente, l’impegno del ragionamento rispetto a quello che gli occhi vedono. Immaginiamo. Arriva il secondo figlio e, vedendo un bel piatto di spaghetti sul tavolo, corre dalla mamma a darle un bacio: non solo vede il piatto ma riflette sul fatto che deve esserci stato qualcuno che lo ha preparato per lui.
Il terzo verbo, orao, è quello tipico della fede. Arriva il terzo figlio, vede il piatto di spaghetti sul tavolo e, dopo aver abbracciato la mamma, si segna con la croce per ringraziare Dio che riconosce essere il datore di ogni bene.
A volte se non vediamo con gli occhi e tocchiamo con le mani, come Tommaso, rischiamo di non credere. In realtà non è Dio che è assente, siamo noi che non vediamo perché sbagliamo livello: restiamo al piano terra di “blepo” pretendendo di vedere Colui che invece ci chiede di salire fino ai piani alti di “orao”.
Per noi che abbiamo inciso nel nostro DNA la vocazione alla missione, aver visto il Signore è un presupposto imprescindibile per poterla poi effettivamente vivere. È un elemento scritto nella nostra storia fin dalle origini: dall’aver riconosciuto il Signore nel volto del Crocifisso, Eugenio ha sentito una chiamata speciale a farsi portavoce di questa sua scoperta agli altri.
È chiaro che raccontare la nostra esperienza, pur vera e sconvolgente, non basta a convincere gli altri alla fede in Lui.
Come missionari non possiamo pensare di essere noi, da soli, pur con tutta la nostra bravura, a convincere gli altri alla fede: se è vero che “abbiamo visto” è vero anche che c’è stata e continua a permanere un’azione previa che ci supera: il Signore che prende iniziativa e si presenta. La missione non è primariamente opera nostra, ma azione del Signore risorto e del suo Spirito che sempre ci precede. Lo testimonia Elisabetta che grazie allo Spirito riconosce in Maria la Madre del Signore; lo testimoniano i missionari della Chiesa primitiva – e, in particolare, l’apostolo Paolo – che dovunque andavano erano preceduti dallo Spirito che preparava la gente all’accoglienza della Parola grazie alla loro testimonianza.
Questo deve far crescere in noi la fiducia e ci deve sostenere nel compito a volte difficile e scoraggiante dell’evangelizzazione. Il cedere al disimpegno, pur ragionevolmente comprensibile per il contesto a volte ostico nel quale ci è chiesto di vivere, testimoniare ed annunciare il Vangelo, significherebbe non dar credito all’azione imprevedibile e spiazzante dello Spirito del Risorto.
Maria, abituata alle sorprese dello Spirito, ci sostenga nella speranza viva dell’azione di Dio nella storia e ci faccia suoi audaci e creativi cooperatori.
Ricordiamoci di pregare sempre gli uni per gli altri.
p. Gennaro Rosato omi
Superiore provinciale