Carissimi giovani sembra una contraddizione cominciare questi giorni di preparazione alla giornata mondiale della gioventù in un cimitero. La giovinezza parla di vita e di futuro; di progetti da realizzare e di orizzonti da raggiungere. Il cimitero parla, invece, di morte e di passato. E allora perché siamo qui?
A pensarci bene, questo luogo in cui riposano tanti martiri ha molto da dirci.
Cimitero è un termine che viene dal latino e significa dormitorio. Che ci fanno i corpi dei morti nel cimitero? Dormono in attesa di svegliarsi nel giorno senza tramonto. Il termine stesso cimitero, che spontaneamente ci fa pensare alla morte, ci apre, allora, alla dimensione della resurrezione e quindi della vita che non finisce. È un aspetto importante della nostra visione sull’esistenza umana, una visione credente che, se ci riflettiamo, può cambiare il nostro modo di vivere.
Non siamo nati per restare sulla terra un centinaio di anni e poi morire come se tutto finisse lì. Nella visione cristiana, noi siamo il frutto di un pensiero eterno di Dio che ci ha creati con la prospettiva di una vita che non finisce più.
Con un’immagine poetica il salmista, descrivendo gli inizi della vita terrena dell’uomo, rivolgendosi a Dio creatore, afferma: «Sei tu che hai creato le mi viscere, che mi hai tessuto nel seno di mia madre” (Sal 139,13). Siamo opera delle mani di Colui che per definizione è Eterno.
San Paolo, quando pensa alla nostra vita, nella lettera agli Efesini si spinge molto più lontano nel tempo: è vero che siamo nati nel tempo, ma da sempre siamo già nel cuore di Dio: «Benedetto sia Dio Padre del Signore nostro Gesù Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità» (Ef 1,4).
Ogni tanto penso che dovremmo modificare i dati sulla nostra carta di identità; oltre alla data di nascita nel tempo, dovremmo aggiungere una nota che specifica la nostra origine lontana… Questo guardando indietro, da dove veniamo.
Se guardiamo avanti, poi, ci aspetta un futuro che non finisce più. È illuminante quello che Gesù dice ai suoi poco prima della sua morte: “non berrò più di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio” (Mt 26,26). “Vado a prepararvi un posto perché dove sono io lì siate anche voi” (cfr. Gv 14,2s).
Con questa visione delle cose è possibile capire l’esperienza dei martiri. Che senso ha correre il rischio di farsi uccidere per la fede se non si crede nella resurrezione che spalanca un orizzonte infinito di vita? Il martire è uno che ha un’ampiezza di veduta tale che non riduce “la vita” alla vita terrena che passa; e se è costretto a scegliere, sceglie la vita del cielo che non finisce.
Quando ero ragazzo, ero abituato a chiamare il cimitero anche con un altro nome, Camposanto. Questo secondo nome indica un’altra realtà molto bella: è il luogo dove riposano i corpi dei santi, in attesa della resurrezione.
La parola Cimitero ci ricorda la situazione attuale di chi lo abita, persone che dormono in attesa di svegliarsi. La parola Camposanto ci parla, invece, dell’identità delle persone che attualmente riposano e cioè coloro che sono stati santificati col battesimo. Qui, nel luogo in cui ci troviamo oggi, riposano i corpi dei martiri, di coloro che hanno condiviso la vita con Gesù come suoi discepoli, di coloro che avendo conosciuto Gesù se ne sono innamorati a tal punto da fare di lui il centro della loro stessa vita. Con lui sono vissuti, con Lui sono morti e con Lui vivranno per sempre.
A questo punto potremmo chiederci: il martirio è una disgrazia o un’occasione?
Con i nostri occhi che non vedono molto lontano, il martirio potrebbe sembrare una disgrazia; agli occhi dei martiri, invece, è un’occasione.
Un’occasione per cosa?
Mi ha sempre colpito quello che Gesù dice in occasione della sua morte, del suo martirio: «Nessuno mi toglie la vita, sono io che la dono» (Gv 10,18). Avrebbe potuto benissimo evitare la croce, ma non lo ha fatto. E trasforma quell’episodio della cattiveria umana che si spinge fino ad uccidere un innocente, in una occasione che gli permetterà di manifestare fino a che punto ci ha amato: «Avendo amato i suoi, ci ricorda l’evangelista Giovanni, li amò sino alla fine» (Gv 13,1).
Quando capirà questo, l’apostolo Paolo, che da persecutore divenne martire, dirà: «Questa vita che io vivo nella carne la vivo nella fede del Signore Gesù che mi ha amato e ha dato se stesso per me…» (Gal 2,20).
L’amore di Gesù che Paolo coglie in tutta la sua profondità, diventa per lui il motivo per il quale vivrà tutta la sua vita per il Signore e per il Vangelo perché tutti potessero fare la sua stessa esperienza e, con lui, poter dire: «Mi ha amato e ha dato se stesso per me».
Chi sono, quindi, i martiri? Sono quelle persone che sono state toccate dall’amore personale del Signore e non hanno avuto cosa più bella da fare nella vita che viverla come occasione per dimostrare a lui il loro amore, fino alla fine.
Che cosa ha a che fare il messaggio dei nostri martiri con noi oggi che siamo qui per partecipare alla giornata mondiale della gioventù? Tra i tanti ne esplicito due.
- La testimonianza dei martiri ci spinge a far crescere il desiderio di conoscere di più Gesù per poter cogliere sempre più, in tutta la sua ampiezza e profondità, l’amore che Lui ha per ciascuno di noi. È questa la sorgente inesauribile della nostra vita. Potremo così essere, come loro, testimoni suoi e del Vangelo.
- In questi giorni stiamo facendo un’esperienza straordinaria: man mano che raggiungiamo la meta (Lisbona) il nostro gruppo va crescendo. Ognuno di noi è partito da solo dalla propria casa; poi al luogo della partenza ha incontrato gli altri membri del gruppo; all’aeroporto si sono incontrati più gruppi della stessa zona; qui a Madrid i gruppi dell’Italia hanno incontrato quelli della Spagna; a Lisbona i nostri gruppi incontreranno i gruppi del mondo intero. Così è la vita: man mano che ci avviciniamo alla meta che è Dio ci avviciniamo gli uni agli altri, ci sentiamo tutti appartenenti all’unica grande famiglia umana. E se i martiri sono stati uccisi dall’odio e dalla cattiveria degli uomini che causano divisioni e guerre, noi possiamo testimoniare la bellezza della convivenza pacifica, della gioia dell’essere uniti, dell’importanza di costruire insieme un mondo più giusto e fraterno dove tutti possano sentirsi a casa.
Camposanto Paracuellos
29 luglio 2023
p. Gennaro Rosato,
superiore provinciale