Un anno fa, per poco più di una settimana, la città di Genova ha fatto da sfondo ad un momento molto intenso di celebrazione, di festa, di ricordi e di aneddoti, ma soprattutto di annuncio del Vangelo. Una numerosa equipe missionaria, formata da Missionari Oblati – sacerdoti e fratelli – giovani e laici, ha invaso la città, visitando tante scuole e proponendo diversi momenti di animazione e di incontro, portando nel cuore – e non solo – il volto di p. Giovanni Santolini, oblato genovese scomparso in Congo esattamente 25 anni prima.
Un contributo fondamentale alla riuscita della missione, fin dagli incontri di preparazione e per tutta la durata dell’animazione missionaria, lo ha dato la famiglia Santolini. Una famiglia numerosa, si sa, ma soprattutto una famiglia che, in tanti dei suoi componenti, ha fermato la propria vita per diventare missionaria per una settimana, insieme agli Oblati e all’equipe.
Uno dei nipoti di Giovanni, Benedetto, si è occupato in maniera particolare della complessa organizzazione delle visite nelle numerose scuole della città che hanno aperto le porte ai missionari. A distanza di un anno, abbiamo rivolto a Benedetto alcune domande, per conoscerlo meglio ma anche per ricordare insieme lo straordinario evento di dodici mesi fa.
Quanti anni hai, che lavoro fai? Dicci qualcosa in più di te.
Mi chiamo Benedetto, ho 34 anni, sono ingegnere e mi occupo di infrastruttura IT, sono sposato ed ho 3 figli.
Che ricordo hai dello zio Giovanni?
Dello zio Giovanni ho un ricordo vivo e nitido. Ho sempre pensato di aver avuto la fortuna di godere di un rapporto privilegiato con lui, pur essendo un bambino. La cosa più bella del suo ricordo è sapere che mi sbagliavo e che ha lasciato la stessa sensazione in quasi tutti quelli che l’hanno conosciuto. Questo, ai miei occhi, fa sì che la sua presenza ed il suo ricordo siano oggi molto più vivi perché ampiamente condivisi!
Come hai reagito quando hai saputo che ci sarebbe stata un’animazione missionaria a Genova, anche per ricordare lo zio?
Molto sinceramente, all’inizio, anche per affanni sul lavoro, non è stato qualcosa che ho accolto con entusiasmo.
Via via che sono stato coinvolto, o forse dovrei dire che mi sono fatto coinvolgere, l’idea ha acquistato tutto un altro sapore. Sono stato attivamente presente nell’organizzazione e questo mi ha permesso di sentirmi ancora più parte della cosa, e di viverla appieno.
Che esperienza è stata per te?
È stata per me un’esperienza molto profonda. Di vita vera. Di contatto con ciò che più conta nel nostro quotidiano: le relazioni. È stato come fare un pieno di benzina, di cui avevo molto più bisogno di quanto pensassi o di quanto avessi consapevolezza. È stata un’occasione per mettersi in gioco, davvero e appieno; per riscoprire alcuni rapporti, allacciarne di nuovi. È stata una luce nuova su tante cose, ed un nuovo punto di vista quanto mai necessario su tante altre.
A distanza di un anno dall’animazione missionaria, quali sono le tue sensazioni? Qual è il ricordo più vivo che hai dei giorni della missione?
Il ricordo più vivo che ho è la sensazione di pace e spensieratezza e contentezza di quei giorni. Di gratuità mista all’affidarsi.
A distanza di un anno, il pensiero ricorrente è quello di un appiglio, di un aiuto a riprendere gli affanni del quotidiano e rileggerli secondo la chiave di lettura di quei giorni. Insomma, è un po’ come se fosse un esempio a cui ricondursi per forzarsi e sforzarsi a far le cose in un certo modo, in quel modo.